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Elogio del Limite

  • Carlo Grande
  • giugno 2012
  • Martedì, 5 Giugno 2012

"Certo che appena piove crea subito disagi": è la frasetta zampillata qualche mese fa, all'inizio della primavera, su un autobus; qualche settimana dopo, quando la temperatura si è fatta più mite (per poi virare poco dopo nel Grande Freddo e poi tornare very hot, per la serie "Signora mia, non esistono più le stagioni"), sullo stesso autobus ho sentito dire: "Ma possibile che con questo caldo non si possa mettere l'aria condizionata?". Le prerogative signori, le prerogative. Le comodità. Il "comfort", dicevano ai tempi di Carosello. Ormai siamo diventati talmente stressati, talmente pigri, abbiamo coltivato "ego" talmente ipertrofici, in espansione più delle galassie, che ogni piccolo incomodo sembra creato dal padreterno e dall'autorità costituita per remarci contro. Sarà la "paranoia soft" di cui parla lo psicanalista junghiano Luigi Zoja in un bellissimo libro. Lo stesso individuo che non paga le tasse sbuffa in coda agli sportelli pubblici che il tempo è denaro, si sa, vuole un'amministrazione efficiente... E non ha ancora capito che non siamo noi ad ammazzare il tempo, ma è il tempo che ammazza noi...E' giusto aver coscienza dei propri diritti ma bisognerebbe ricominciare a mettere in fila le priorità: i nostri diritti sono sacrosanti, però sulla Costituzione non c'è scritto che dobbiamo mangiar le fragole a dicembre o avere l'aria condizionata sull'autobus in aprile. Quest'inverno, con un metro di neve, la gente protestava perché veniva limitato il "sacrosanto diritto a muoversi"... E stare un po' fermi e in silenzio e a casa, ogni tanto? Meno male che noi sabaudi il senso del limite ce l'abbiamo "di default", incorporato dalla nascita in quell'"esageruma nen" che in ogni occasione ci ricorda di abbassare la cresta, di darci una mossa. Siamo fatti così, c'è niente da fare. E' un difetto e una virtù. Ci auto-deprimiamo ma non coltiviamo certo, come Tartarino di Tarascona, l'arte di esagerare, di cambiare idea, di fare gli spacconi. Il meraviglioso personaggio di Alphonse Daudet viveva un'"eroica esistenza nella cerchia familiare", sognava grandi imprese (e forse anche una tailandese, come il povero Lucio Dalla) e non si era mai mosso da Tarascona, paesello nel Sud della Francia. Era un uomo "dai quaranta ai quarantacinque anni, piccolo, grassottello, rubicondo; in maniche di camicia con certi mutandoni di flanella (questo no, oggi siamo tutti griffati, ndr); una barbetta corta e degli occhietti sfavillanti...". La vita provinciale gli andava stretta, si sentiva Tartarino-Chisciotte, ma il Tartarino-Sancio prevaleva sempre: tant'è che non si era mai mosso da Tarascona e si accontentava di coltivare la "strepitosa fantasia" del Midi francese. Ah, certe volte è meglio l'understatement di Faussone, il sabaudo protagonista de "La chiave a stella" di Primo Levi: uno che – attenzione – sa sbrogliarsi, mettersi alla prova, che non si lamenta quasi mai e viaggia per il mondo perché comunque non riesce a "tenere il minimo": "Perché vede, io sono uno che non tiene il minimo – dice. Sì, come quei motori con il carburatore un po' starato, che se non stanno sempre su di giri si spengono, e allora c'è pericolo che si bruci la bobina". Se Faussone sta troppo a casa poi "dopo un po' di giorni mi vengono tutti i mali, mi sveglio di notte, mi sento come se mi dovesse venire il raffreddore e invece non arriva, mi viene come se mi dimenticassi di respirare, ho male alla testa e ai piedi, se vado in strada mi pare che tutti mi guardino, insomma, mi sento sperso". Faussone ama le imprese difficili, non per nulla è granata sfegatato: a Torino vive in una stanza monastica, con il salame e l'aglio al soffitto e la foto "della squadra granata, tutta coperta di firme"... Lui se fa freddo alza il bavero e corregge il caffè, direbbe De Gregori, ("Un uomo con le spalle larghe") lo stile di vita più sobrio ce l'ha incorporato. Mica come i plotoni di narcisi per strada che girano tronfi, a gambe larghe, che al confronto John Wayne sembra un complessato. Certo, coltivare i propri diritti e richiedere a chi ci governa di farlo bene è sacrosanto. Ma l'attitudine alle "prerogative" e all'esasperata coscienza di sé è tipica dei tele-stupefatti: "tu vali", ripete continuamente la pubblicità, mentre sarebbe ora di dire che quando pensiamo solo a noi stessi o alla famiglia, quando non dimostriamo un poco di altruismo e di solidarietà (di "compassione", la chiamano i tibetani, "carità" i cristiani) valiamo davvero poco. Diceva Monsignor Bettazzi, se ben ricordo: "Tutti parlano di patria, di patriottismo: per me il vero patriota è chi paga le tasse". E invece eccoci là, tutti commossi e con la mano sul petto e ben lontana dal portafoglio a commuoverci davanti alla bandiera, nel salotto di casa. Poi scendiamo in strada a festeggiare, prendiamo la bandiera, la bici, il bambino, gli mettiamo il caschetto e partiamo contro mano, tagliando i semafori rossi. Rivediamoci il grandioso e amarissimo finale di quel capolavoro agrodolce che è "In nome del popolo italiano" di Dino Risi. I limiti, la legge? Noiosi contrattempi. La neve, la pioggia, l'estate ci remano contro. Ma esistono e quello che non si impara da soli, per tempo, alla fine ce lo insegnano la vita e l'esperienza, con la frusta. I limiti esistono: anch'io avrei avuto ancora molte cose da dire, ma lo spazio è finito. Visto? I limiti arrivano da sé.

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