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Giugno, il richiamo del picchio

Quando picchia la testa si muove a olre 2mila km orari: impariamo da lui la fiducia in noi stessi

  • Carlo Grande
  • giugno 2014
  • Lunedì, 16 Giugno 2014

 

Aver paura della paura, questo dobbiamo temere: perché la paura fa vivere male, se fa il nido nelle nostre teste: ce le fasciamo prima di averle rotte. Come diceva un tizio: "L'avaro è colui che vive da povero per paura della povertà"...
A proposito di teste, in questo giugno che ci scalda di luce e di calore e ci conforta accompagnandoci verso l'estate, sentiamo sempre più spesso i richiami del picchio, che notoriamente ha una capoccia formidabile: lui sì che è un bell'esempio di fiducia in se stessi. In queste settimane si riascolta il suo tamburellare nelle foreste, scava il legno per il nido ma lancia anche segnali per tenere alla larga gli altri maschi o per invitare le femmine a metter su casa. Ha una testa specialissima, che gli consente di attutire i colpi, un miracolo di coordinazione tra ossa del cranio, becco, cervello e muscoli del collo. Quando picchia (8-10 battute al secondo, Zidane, al confronto, è un dilettante) la testa si muove a oltre duemila chilometri orari, il doppio di un proiettile. Un osso comprimibile del cranio ammortizza lo shock per il cervello (quello degli umani schizzerebbe all'indietro, sommerso dai fluidi cerebrali) e un millisecondo prima di sferrare il colpo il picchio contrae i robustissimi muscoli del collo chiudendo la spessa palpebra interna; protegge così dai trucioli i bulbi oculari, sennò schizzerebbero fuori dalla testa.

Beato lui, che si muove leggero, a volo ondulato come una farfalla e non ha mai mal di testa... Ma giugno invita a sperare anche noi: nelle strane notti d'estate che portano al Solstizio, si possono cogliere poesia e speranza. Lo sapeva Mario Rigoni Stern, che se n'è andato proprio sei anni fa in questo mese, il 16 giugno 2008: "In certe notti serene, con la luna grande, si fa festa nei boschi...".

Festeggiamo anche noi la vittoria sulla paura, con coraggio: come fece Gaio Mario con le sue legioni, davanti alla terribile massa dei Cimbri che da sei giorni sfilavano davanti all'accampamento in cui erano asserragliati i romani. Plutarco dice che erano così vicini ai baluardi da poter chiedere ai legionari, sghignazzando, se avevano qualcosa da mandare a dire alle loro mogli, perché presto le avrebbero viste... Mario non reagì, seppe calmare i compagni. Anzi, chiamò soldati semplici e novellini nei pressi del vallo e ordinò loro di guardare, di sostenere l'aspetto terribile dei barbari, le urla, perché imparassero a vincere l'immagine dello spavento. Il terrore doveva avere un volto. Tutto ciò che ci spaventa, pensava Gaio Mario, è tale soprattutto perché non lo conosciamo: "Anche ciò che è veramente spaventoso, visto a lungo e da vicino, perde gran parte della sua forza". Così i legionari si fecero coraggio, il pericolo e gli insulti "infiammarono i loro cuori".

Se siamo fragili e ogni tanto cadiamo ("Coraggio ce l'ho. E' la paura che mi frega", diceva Totò), facciamoci coraggio con Woody Allen: "Meglio essere vigliacchi per un minuto che morti per il resto della vita"...

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