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Novembre, tempo di (pieno) silenzio

Lo desideriamo spesso, lo incontriamo raramente. Eppure aiuta a pensare e rinnova le energie

  • di Carlo Grande
  • novembre 2013
  • Lunedì, 17 Marzo 2014

Se c'è uno stato ricorrente o desiderato, di questi tempi, è il silenzio. Lo desideriamo spesso, nelle metropoli e in campagna - un pranzo con gli amici fuori porta, una passeggiata solitaria – lo incontriamo raramente. Ma è benefico, aiuta a pensare. L'inverno aiuta: è il bianco della campagna sotto la brina e la neve, il ricamo nero degli alberi tra suoni e richiami sempre più radi... Il "cra" di corvi e cornacchie, l'involarsi di storni o di colombacci... Poi il silenzio, un collettivo addormentarsi; la natura che si annulla e rinnova la ciclica fine delle cose... E' giusto, ogni tanto, fermarsi, rinnovare le energie.

Ma c'è un altro inverno che attraversiamo, che alle volte si trasforma nello scroscio di torrenti e di fango, in alluvioni (quante se ne vedono passare, in questi anni, a Genova, in Liguria, nel Messinese, in tante parti d'Italia), sono la colonna sonora ricorrente che parla di crescita inarrestabile della popolazione, di devastazione delle risorse e della biodiversità, di disperati della Terra, spesso nelle nazioni più povere, che spinti dagli speculatori e dai Paesi ricchi abbattono per quattro soldi l'ultimo animale o l'ultimo albero della foresta pluviale, creano distese di palme da olio, di ogm e soia. A un capo del pianeta cade un rinoceronte, dall'altro scende un fiume di fango e di acqua: è tutto connesso. "Tornare alla terra, prima che la Terra torni a noi" diceva una vignetta nella quale era disegnata una frana.

Nel silenzio di cince, merli e codirossi – saranno da qualche parte del Sahara a fare "fuit tik tik tik" – dobbiamo riempire di senso le nostre giornate, tra voci e richiami d'inverno: bisogna «vivere il trattino», dice Herzog in "Into the Abyss", lo spazio fra la nostra data di nascita e di morte: un trattino sembra poco ma non lo è, ognuno lo riempie con la voce che ha.
Può essere la voce dei ghiri, che raspano in soffitta e ti lasciano insonne.

Inquieti ghiri, crepuscolari e nottambuli. Intorno c'è il fiato freddo della campagna e il buio vero, che non sempre racconta storie consolanti, e in soffitta ci sono loro, che costruiscono il nido con terriccio, foglie e rametti in una fessura o sotto le tegole del tetto, nel cavo di alberi o nelle fessure delle rocce. Hanno sentito il vento fresco dell'autunno e si preparano all'inverno, maestri del letargo che se la dormono per sei mesi dimenticando i nemici (rapaci notturni, faine, martore), a occhi chiusi, con la coda piegata sul ventre, dopo la baldoria autunnale nel sottotetto: si sono pappati tutta l'uva fragola, le nocciole e le ultime castagne.
Qualche volta, da bravi acrobati, si infileranno nella canna fumaria per calarsi in cucina, dove scroccare ancora qualcosa, sfacciati, lunghi una spanna.

Come noi, sempre a guardare «le antiche stelle», ad ascoltare «il cerchio dell'acqua nella segreta cisterna, l'odore del gelsomino e della madre- selva, il silenzio dell'uccello addormentato, l'arco dell'androne, l'umidità» dice Borges... e dice "queste cose forse sono la poesia".

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